
La scoperta del fungo Pestalotiopsis microspora nella foresta amazzonica ecuadoriana ha suscitato grande entusiasmo nella comunità scientifica. Isolato nel Parco Nazionale Yasuní da studenti di Yale durante una spedizione (2011), questo organismo miceliale sorprendente è in grado di nutrirsi direttamente di poliuretano – un tipo di plastica molto resistente – e persino di farlo in assenza di ossigeno. In pratica, P. microspora può “mangiare” sacchetti o rifiuti di plastica, trasformandoli in materia organica. Questa capacità unica di degrado anaerobico rende il fungo un candidato ideale per progetti di biorisanamento su larga scala, aprendo la strada a un alleato naturale contro l’inquinamento da plastica.
Funghi mangiaplastica e innovazione green
L’entusiasmo non si ferma alla scoperta: designer e ricercatori stanno già immaginando come sfruttare il micelio per trasformare la plastica in risorsa. In Olanda, l’artista Katharina Unger e un team dell’Università di Utrecht hanno creato il prototipo Fungi Mutarium, un piccolo “laboratorio” in cui capsule di agar nutrienti ospitano il fungo insieme a pezzetti di plastica trattata con UV. In pochi mesi il micelio digerisce completamente la plastica, lasciando al posto del sacchetto un cappello fungino bianco e soffice dal sapore dolce di liquirizia. Lo stesso scienziato che ha osservato questo processo racconta che il frutto di P. microspora può essere persino commestibile, aprendo visioni di rifiuti plastici trasformati in cibo! Gli studiosi prevedono che in futuro ogni famiglia potrebbe avere piccoli “mutari” domestici per riciclare la plastica di casa, grazie alla micologia.
Ma i funghi del futuro non si fermano al riciclo. Anche il mondo della moda e del design abbraccia le proprietà sostenibili del micelio. Nel 2021 Stella McCartney ha presentato una giacca in “pelle” di micelio, e grandi marchi come Adidas, Lululemon e Hermès stanno lanciando collezioni realizzate con fibre fungine. Allo stesso modo, negli USA l’innovazione tecnologica ha permesso di coltivare funghi per creare materiali da costruzione: la startup Evocative Design produce pannelli isolanti ignifughi e persino flip-flop biodegradabili partendo dal micelio. La natura dimostra così di saper offrire alternative “verdi” alla plastica e alla pelle sintetica, intrecciando creatività e sostenibilità.
Sviluppo o conservazione: il dilemma ecuadoriano
Nel contesto dell’Amazzonia ecuadoriana, questa svolta scientifica irrompe in un dibattito cruciale. L’area di Yasuní è una delle più ricche di biodiversità al mondo, custodendo più specie vegetali in un solo ettaro di quante ce ne siano in un intero continente. Ma sotto il suolo giacciono quasi 7,2 miliardi di barili di petrolio. Nel 2007 l’ex presidente Rafael Correa cercò di risolvere il dilemma lasciando il petrolio sotto terra: il progetto Yasuní-ITT puntava a raccogliere 3,6 miliardi di dollari da donatori internazionali per preservare la foresta. Yasuní fu dichiarato Riserva della Biosfera dall’UNESCO, ma alla fine il governo dovette archiviare l’iniziativa nel 2013 dopo aver raccolto solo 13 milioni di dollari.
Sul campo la tensione tra petrolio e natura è evidente. Nel piccolo villaggio amazzonico di Sana Isla, lungo il Rio Napo, le richieste di sviluppo hanno diviso la comunità indigena Kichwa. Nel 2011 la compagnia statale Petroamazonas propose indagini sismiche nel territorio, scatenando un acceso conflitto tra due sorelle del villaggio: Blanca Tapuy giurò di proteggere la foresta anche a costo della vita, mentre Innes sostenne che i petrolieri avrebbero portato benessere indispensabile alla comunità. Grazie alla determinazione di Blanca e di altri abitanti, la societá petrolifera fu costretta a ritirare l’offerta, almeno per il momento.
Questo scenario ricorda i fantasmi del passato: tra il 1964 e il 1992 la Texaco (poi Chevron) trivellò 1,5 miliardi di barili in Amazzonia, lasciando dietro di sé quello che è stato definito l’“Olocausto dell’Amazzonia”. Un’area vasta 1.700 miglia quadrate venne avvelenata con 72 miliardi di litri di scarti tossici, cavi di cava aperti e centinaia di pozzi irrisoriamente non schermati. L’impatto per le popolazioni locali fu devastante: i tassi di tumore aumentarono drasticamente e migliaia di ettari rimasero contaminati. Vale la pena ricordare che in quella stessa terra, ricca di circa 4.000 specie vegetali, esiste il piccolo fungo plastivore che ora infonde speranza. Le cicatrici di queste ferite ambientali sottolineano l’urgenza di cambiare rotta.
Scienziati, indigeni e innovazione: alleati inattesi
In mezzo a queste sfide, cresce una rete di alleanze controcorrente. La comunità scientifica internazionale ha preso a cuore la scoperta di Pestalotiopsis: già si studia il suo genoma, si testano processi su larga scala e si condividono dati in conferenze globali, sulla scia della “biorivoluzione” che trasforma rifiuti in risorsa. Anche in Amazzonia la ricerca incontra la tradizione: biologi collaborano con comunità indigene per mappare il micelio selvatico e raccoglierne spore. Gli attivisti ambientali locali, dalle organizzazioni indigene alle ONG internazionali, difendono la foresta raccontando queste storie di speranza ai media, costruendo un fronte comune di tutela. In parole semplici: chi studia il fungo porta conoscenza nei villaggi; chi vive nella giungla condivide saperi antichi con i laboratori. Il micelio, d’altra parte, è già “connesso” come una rete sotterranea e forse può insegnarci a lavorare insieme.
Queste azioni collaborative generano ottimismo. Un fungo dai superpoteri può sembrare un personaggio da favola, ma la sua esistenza dimostra che soluzioni inaspettate giacciono proprio sotto i nostri piedi. Se la plastica ci inquina, la biologia potrebbe nutrirci di speranza e nuove risorse. In questa visione è facile riconoscersi come “natural hacker”: giovani innovatori e ambientalisti solarpunk che sognano (e costruiscono) un mondo più verde, micronetwerk dopo micronetwerk. Ogni studio su P. microspora, ogni esperimento di micelio domestico, rafforza la consapevolezza che un altro futuro è possibile – a partire dall’Amazzonia, ma con un’eco globale.
Coltiva la speranza: fai-da-te micologico
Chiunque può fare la propria parte. Coltivare funghi in casa non è solo un passatempo: è un gesto concreto di cambiamento. Basterebbe procurarsi un po’ di micelio di funghi saprofiti (come il pleurotus), un contenitore di plastica o un sacco di segatura e seguire i tanti tutorial disponibili online. Proprio il concetto di Fungi Mutarium è l’embrione di un kit domestico: un piccolo laboratorio tascabile per trasformare avanzi di cibo o pure plastica in nuovi organismi viventi. Con semplici colture fai-da-te, chiunque può sperimentare come un vero scienziato green: dal balcone di casa si può mitigare l’inquinamento, nutrire il suolo e anche raccogliere una cena gourmet di funghi. In questo modo, ogni coltivazione fungina diventa una rivoluzione verde su scala personale: perché mentre il micelio cresce autonomo nell’oscurità, noi contribuiamo giorno dopo giorno a un mondo più pulito.
Fonti: Scoperte scientifiche e approfondimenti sui funghi plastivori e la politica ambientale in Ecuadoren.wikipedia.org earth.org
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